Alla mensa di sua maesta’ il tartufo


Non c’è momento della passione gastronomica che più sappia di esaltazione, di innamoramento e di follia, quanto immergersi nel profumo immenso e stordente del tartufo.
Dà la scossa elettrica a quel complesso “computer” che è il buongustaio.
Al primo entrare nella casa o nella trattoria che sta per imbandirti il pranzo, la vampata di odor di tartufo grigio piemontese è una muta promessa che condensa e racchiude in sè tutte le evocazioni e le suggestioni di una cucina antica e preziosa, casalinga nelle sue schiettezze e nelle sue gentilezze, autunnale nel suo complesso di colori gialli e vermigli,è di arie umide e fresche in una vigilia d’inverno invitante al colore della casa e della mensa.
Si, nell’odore del tartufo c’è quello legnoso di una vecchia cascina piemontese fumosa di ciocchi di vite, c’è quello fungoso dei boschi fradici e muschiosi, delle cortecce marce e delle foglie morenti, e c’è pure l’odore più concreto e preciso della morbida fonduta e del lussurioso fagiano in salmi, delle croccanti tagliatelle di Langa e delle brune cappelle di funghi porcini strofinate d’olio e aglio strinate dalla brace.

E’ giusto che il tartufo costi così caro, è giusto che non ce ne possiamo permettere più di alcune sfoglie sul nostro piatto di rosea carne cruda in insalata, perché quel profumo deve rimanere sempre, per il buongustaio, come un amore sognato, come una immaginazione incompiuta.
Anche la cucina e la ghiottoneria hanno i loro grandi simboli – per lo più circonfusi in un alone di incertezza e di leggenda, di rarità e di precarietà – e il tartufo (specie il sommo dei tartufi, quello bianco-grigio piemontese, di Alba, di Asti, della Langa, e del Monferrato) è il massimo di questi mostri mangerecci.

fotografia di V. UbertoneE’ giusto, bello e fatale che di lui non si sappia niente di preciso e di definitivo: che non si sappia per esempio se queste tecniche di fecondarne alle radici gli alberi, e di aspettare una mezza vita la loro crescita, veramente ci garantirà un giorno di raccogliere una produzione “non selvatica” e sottratta alle astuzie, ai segreti e alle cabale del vecchio “trifolau” e del suo prezioso cagnetto.
E’ una giusta nemesi che nemmeno gli esperti ed i fanatici dediti per tutta la vita a cercare tartufi, commerciare tartufi, discutere di tartufi sappiano con certezza distinguere il tartufo di quercia da quello di platano, di tiglio e di salice (un po’ più decifrabile per la sua bianchezza quello di pioppo, spesso buonissimo, ma anche lui alle volte t’inganna); e che non siano sicure e immutabili, ma largamente discutibili, le regole concernenti l’inizio e la fine della stagione in cui cresce (vedi la diatriba tra gli astigiani e gli albesi sul tempo d’inizio della raccolta) e la prevedibilità di un prodotto abbondante o scarso o addirittura assente, di modo ché il buongustaio non è mai sicuro di poterlo mangiare, il suo tartufo, e deve considerare una fortunata combinazione che il ristoratore possa grattugiarglielo sul risorto sia pure a 200 mila lire l’etto.

Ecco, questo ancor oggi è il mondo bello e misterioso del tartufo, sfumato da mille incertezze, sostenuto da una ghiottoneria raffinata e incontentabile, quasi mistica.
E cioè uno dei pochi capitoli alimentari retto da regole non scritte di una cultura antica e patriarcale, quasi medievale, che non è più la nostra, fatta di costanti merceologiche dominate dalla tecnica e dalle regole della pubblicità e del mercato.

Per gli antichi il tartufo non aveva ancora questa distinzione,questa preziosa unicità che ha per noi: talché del “tuber magnatum” dissertavano e consumavano e scialavano con molta disinvoltura e noncuranza.

Il prodigio del tartufo è che la sua adattabilità gastronomica ideale si verifica a un tempo coi cibi di gusto lieve, morbido e fine – massime l’uovo al burro, giallo-rosso il tuorlo, giallo carico il burro – e coi cibi dall’opposto gusto forte e violento: l’acciuga dissalata con olio e aglio, la selvaggina col suo fortore di fegato stemperato nel cognac, persino la aggressiva “bagna cauda”!
E’ un altro mistero, riservatoci dal re tartufo, monarca e mago.
fotografia di V. UbertoneIo ho sentito discutere per ore, ed ho discusso io stesso con una passione come ne andasse del mio onore e della mia vita, se un tartufo perfetto di quercia sia migliore su di un uovo al tegamino o su una rossa acciuga di Spagna appena dissalata e imbottita di aglio.

Il terzo prodigio irrazionale del tartufo, è poi che si adatta anche ad una selva di erbe aromatiche diverse, sopravanzandole tutte, non essendone disturbato, e tutte facendole sue schiave.
Un esempio: il tartufo va bene sugli agnolotti piemontesi conditi col solo sugo d’arrosto (nessun aroma qui), ma meglio ancora va su un piatto di gialle tagliatelle all’uovo tirate in casa condite con burro fuso e lungamente infuso – come ho provato io stesso – un gran mazzo d’erbe costituito da salvia, rosmarino, alloro, basilico, gambi di prezzemolo, foglie verdi di sedano e uno spaccato per lungo di porro!, un inferno di profumi che si placano portando in trionfo sulle loro spalle sua maestà il tartufo.