Viva i polli monferrini

Una volta mangiare polli era sinonimo di mangiare da signori (contrapposto a “pàn e anciùe”, considerato cibo da poveretti). Oggi è tutto il contrario, le acciughe sotto sale sono carissime (anche 50.000 lire al chilo), e i polli sono così svalorizzati che i nostri Ristoranti non osano più proporli nei loro menù! Provate a entrare in tutti i ristoranti Astigiani, e ci gioco che non vi troverete un piatto a base di pollo.


Ebbene, è un peccato, uno sbaglio della moda e della mania della “roba costosa” ritenuta la sola “fina”.
Intanto pensate che nel secondo Ottocento, nella Parigi della “bella epoque”, capitale buongustaia d’Europa, costava di più un pollo della Vandea – la cattolicissima regione della Francia in cui si allevavano i polli più pregiati del Paese – che un’aragosta della stessa grossezza!


A quei tempi non solo a Parigi ma anche nelle nostre campagne piemontesi si allevavano buonissimi polli, e soprattutto si cucinavano meglio.  Con i polletti novelli, i galli di primo canto e le vecchie galline, si facevano buonissimi piatti, considerati a ragione roba da signori. Eppure erano piatti semplici e non difficili da fare, di cucina casalinga.


Eccovi qui una ricetta piemontesissima di cacciatora antica, pubblicata a Torino da Francesco Capusso, scrittore di cucina, nel 1851. Pensate, sono 150 anni fa, eppure vedete come sa di cucina nostrana e di campagna. Diceva di prendere un polposo galletto o pollo, tagliarlo a pezzi e  metterlo a rosolare in burro e lardo a fettine, rosmarino e alloro; versarvi sopra mezza bottiglia di buon vino rosso e un po’ chiaro, tipo Grignolino e Freisa; aggiungervi mezzo chilo di funghi a pezzi un po’ grossi, o in mancanza una bella manciata di funghi secchi ammollati; portare a cottura facendo assorbire il vino e se occorre un’aggiunta di brodo, sgrassando la salsa così ristretta e divenuta di color bruno. Alla fine bagnate con l’ammollo dei porcini secchi, togliete le fettine di lardo arrostite e aggiungete – qui viene il bello – una tritata di abbondante prezzemolo e aglio (anche salvia e timo o altre erbe se le avete) con tre o quattro buone acciughe dissalate; mettetevi da ultimo un cucchiaio di farina impastato con un bel pezzo di burro fresco, alzate la fiamma e fate cuocere ancora tre o quattro minuti. Provate, quanto è buono. Perché non lo facciamo più?!


Oggi il pollo alla cacciatora da noi in Piemonte è diventato tutta altra cosa: ci sono le cipolle e il pomodoro, talvolta pezzi di peperone e basilico. Così la cacciatora è diventata rossa e non più bruno scuro, ha preso qualcosa di meridionale e di ligure; anche lei è buona – seppure un po’ meno piemontese – e bisogna farla!


E’ vero che una ventina di anni fa, all’inizio della produzione di “polli da batteria”, questi erano piuttosto scadenti, con le carni molli e insapori, persino con qualche puzzina di pesce perché si usavano mangimi giapponesi di basso costo, fatti con ritagli di pesci e di gusci di gamberi essiccati e tritati. Ma ora le cose sono cambiate: vi sono dei polli di buona razza, nutriti con buoni mangimi, nati bensì “di allevamento”, ma poi rifiniti lasciandoli becchettare in libertà in vasti recinti. Con questi polli di qualità, dotati di nuovo di belle creste rosse – anche se non sono proprio identici ai perduti polli di una volta, covati e cresciuti nelle cascine della Vandea e del Monferrato – si possono fare buone cose: non solo polli in arrosto e in umido con i peperoni o le cipolline, ma polli ripieni, sotto gelatina, galline lesse col Bollito Misto, cotolettine impanate col Fritto Misto.


Allora, siamo d’accordo a riprendere a fare i vecchi piatti nostrani di pollo anche nei Ristoranti dell’astigiano, e nelle serate del Tartufo?!?