«L’industria vinicola sta vivendo una trasformazione significativa, poiché sia i produttori che i consumatori stanno diventando più attenti all’ambiente. La ricerca di Brand Finance rivela che la sostenibilità ora guida un sostanziale 11% della considerazione dei clienti nel settore. Le aziende che adottano pratiche come la riduzione dell’uso di pesticidi, il riciclaggio dell’acqua e la garanzia di un trattamento equo per i lavoratori dei vigneti stanno diventando sempre più attraenti per i consumatori. Di conseguenza, molti produttori stanno rinnovando le loro pratiche per proteggere meglio l’ambiente e salvaguardare le loro viti dagli estremi climatici. La comunicazione trasparente di questi sforzi sarà probabilmente una componente cruciale per guadagnare la fiducia dei consumatori, la preferenza e, in definitiva, il successo del marchio negli anni a venire». Queste parole sono di Henry Farr, direttore di Brand Finance.
Cos’è BF? È la principale società di consulenza per la valutazione dei marchi al mondo e lo fa attraverso un database di parametri che, dichiara la stessa società, è utilizzato da istituzioni finanziarie, agenzie non governative e accademici. «Siamo la prima azienda ad aver ottenuto la certificazione ISO 10668: Brand Valuation e ISO 20671: Brand Evaluation, e il nostro team stabilisce gli standard più elevati in termini di competenza e rigore nella conduzione di valutazioni di marchi» assicura BF.
Ma perché parliamo di Brand Finance? Perché ha rilasciato recentemente una classifica (leggi qui) sui dieci brand vinicoli più importanti al mondo sotto diversi profili. Non c’è l’ombra di un brand italiano. Il che forse significa che, al di là di certe e improvvide dichiarazioni giornalistiche su “sorpassi” e quant’altro, i brandi nazionali hanno ancora molto da lavorare sotto molti punti di vista.
Ora, sappiamo tutti quanto valgano queste classifiche e che siano da prendere un po’ con le molle. Tuttavia l’analisi del direttore Farr impone riflessioni.
Il fatto, però, che ci siano osservatori che indicano flessioni importanti nella vendite di vino, specialmente rossi, sui maggiori mercati mondiali. Che sia sempre più presente una crescente coscienza sostenibile da un punto di vista ambientale, sociale ed etico, da parte sia dei produttori sia dei consumatori. Che sia impellente affrontare e, se possibile, mitigare gli effetti del cambiamento climatico che è fenomeno ormai acclarato dal punto di vista scientifico con ripercussioni notevoli su produzioni, lavoro in vigna e, di conseguenza, sulla competitività dei prodotti. Che su questo punto le filiere e le istituzioni che governano la politica agricola e viticola italiana debbano riconsiderare progetti e iniziative, azioni e prospettive, in un quadro di rivalutazione globale dei disciplinari, dei rapporti di lavoro (in vigna e fuori), delle scelte energetiche, di quelle di riciclo e di un uso corretto delle risorse idriche.
Tutte queste cose insieme debbono condurre a un riesame della situazione generale.
Nel nostro Paese, infatti, continuano a non mancare gli scandali di sfruttamento e caporalato in viticoltura, la tecnologia di ultima generazione è ancora poco applicata in molte aree viticole, sono poche le soluzioni contro siccità e insolazione. Che fare?
Si potrebbe (dovrebbe) forse pensare, se già qualcuno non lo stesse facendo, a un reset globale del comparto vino italiano.
Non solo per questioni economiche e sociali, che pure sono importantissime, ma anche per quello che il settore rappresenta in tema di cultura e storia, rispetto dell’ambiente e dei paesaggi che, per quanto riguarda la zona di Langhe-Roero e Monferrato, proprio quest’anno festeggiano il decennale di proclamazione a Patrimonio dell’Umanità tutelato dall’Unesco. Non poco, ma, a quanto pare, fino ad ora, non abbastanza per imporre un cambio di passo.
fi.l.
Pubblichiamo qui i grafici tratti della classifica di Brand Finance.